Giuseppe Dente – Marco Rossati

Giuseppe Dente

Recensione critica

A cura di Marco Rossati

Il mio interesse per la pittura di Giuseppe Dente scaturisce da vari motivi che, interagendo tra loro, insieme formano i dati pittorici e critici a mio avviso più importanti del suo lavoro di artista.
I suoi dipinti alludono sempre a un’apertura verso un mondo assolutamente differente, “alieno” fino all’impossibile (non ostante l’infinita gamma di possibilità visive offerta oggi dalla tecnologia) un cosmo i cui mondi paralleli e gli universi “altri” vengono descritti unendo tratti e aspetti differenti, presi dal repertorio dell’immaginario umano, pianta siderale le cui radici sono immerse nel profondo della stessa realtà.
Da un punto di vista strettamente critico, ho già avuto modo di definire “canonica” la particolare attrazione di Dente per il focoso immaginario del surrealismo storico. Canonica non solo per la molteplicità e i repentini slanci dei temi e dei simboli che vengono a intrecciarsi sulla superficie delle sue tele e ne costituiscono l’ossatura iconica. E non solo per l’uso quasi “ultraortodosso” che fa della sfera visiva proveniente dall’esperienza del sogno. Canonica, a mio avviso, soprattutto per l’estremo predominio che detiene l’inconscio (ovvero ciò che la psicanalisi così denomina) nei processi formativi interni alla pittura di questo artista, quasi che l’inconscio stesso fosse il liquido amniotico in cui, traendone vitale nutrimento, il lavoro di Dente trascorre la sua propria gestazione fino a venir fuori, “alla luce”.
La ricerca onirica e fantastica di questa gestazione, che caratterizza tutta la sua pittura, agisce naturalmente attraverso una spessa rete di simboli visivi. Oggetti apparente¬mente incongrui che appaiono accanto a figure come vitree, spesso sbigottite dalla loro stessa presenza nel territorio del dipinto e ne condizionano i comportamenti in uno spazio e in una dimensione pittorici penetrati a ritroso in se stessi, fino a scoprire una sorta di sottofondo jun¬ghiano del sogno e della rappresentazio¬ne. Dice, infatti, Jung: ” … le immagini che si producono nei sogni sono molto più pittoresche e vivide dei concetti e delle esperienze che rappresentano la loro con¬troparte al livello della coscienza”.
Un altro elemento che caratterizza il lavoro di Dente è il modo in cui utilizza lo specifico pittorico; il suo approccio, cioè, non solo alla tecnica, ma alla sostanza stessa della pittura. E’ dall’aspra e sofferta asciuttezza delle stesure cromatiche e delle materie, delle linee, delle forme con esse descritte, che scaturisce un peculiare, nostalgico sentimento dello spazio. E’ tra quelle improvvise dilatazioni, allungamenti e dissolvimenti di figure avvolte da inconsapevoli, pungenti melanconie che si manifestano i repentini restringersi e svanire di strade e edifici in corsa solitaria verso orizzonti deformati e schiacciati da tramonti “illogici”. Tramonti le cui radiazioni rivelano figure dalla sensualità attonita, quasi dolente: qui (come ho scritto di quest’autore in un’altra circostanza) “donne, uomini, asteroidi, oggetti… tutto si lascia mettere in posa, come per farsi ritrarre un istante prima che la percezione drammatica della distanza lo sorprenda”.

Giuseppe Dente

Recensione critica

A cura di Marco Rossati

Il mio interesse per la pittura di Giuseppe Dente scaturisce da vari motivi che, interagendo tra loro, insieme formano i dati pittorici e critici a mio avviso più importanti del suo lavoro di artista.
I suoi dipinti alludono sempre a un’apertura verso un mondo assolutamente differente, “alieno” fino all’impossibile (non ostante l’infinita gamma di possibilità visive offerta oggi dalla tecnologia) un cosmo i cui mondi paralleli e gli universi “altri” vengono descritti unendo tratti e aspetti differenti, presi dal repertorio dell’immaginario umano, pianta siderale le cui radici sono immerse nel profondo della stessa realtà.
Da un punto di vista strettamente critico, ho già avuto modo di definire “canonica” la particolare attrazione di Dente per il focoso immaginario del surrealismo storico. Canonica non solo per la molteplicità e i repentini slanci dei temi e dei simboli che vengono a intrecciarsi sulla superficie delle sue tele e ne costituiscono l’ossatura iconica. E non solo per l’uso quasi “ultraortodosso” che fa della sfera visiva proveniente dall’esperienza del sogno. Canonica, a mio avviso, soprattutto per l’estremo predominio che detiene l’inconscio (ovvero ciò che la psicanalisi così denomina) nei processi formativi interni alla pittura di questo artista, quasi che l’inconscio stesso fosse il liquido amniotico in cui, traendone vitale nutrimento, il lavoro di Dente trascorre la sua propria gestazione fino a venir fuori, “alla luce”.
La ricerca onirica e fantastica di questa gestazione, che caratterizza tutta la sua pittura, agisce naturalmente attraverso una spessa rete di simboli visivi. Oggetti apparente¬mente incongrui che appaiono accanto a figure come vitree, spesso sbigottite dalla loro stessa presenza nel territorio del dipinto e ne condizionano i comportamenti in uno spazio e in una dimensione pittorici penetrati a ritroso in se stessi, fino a scoprire una sorta di sottofondo jun¬ghiano del sogno e della rappresentazio¬ne. Dice, infatti, Jung: ” … le immagini che si producono nei sogni sono molto più pittoresche e vivide dei concetti e delle esperienze che rappresentano la loro con¬troparte al livello della coscienza”.
Un altro elemento che caratterizza il lavoro di Dente è il modo in cui utilizza lo specifico pittorico; il suo approccio, cioè, non solo alla tecnica, ma alla sostanza stessa della pittura. E’ dall’aspra e sofferta asciuttezza delle stesure cromatiche e delle materie, delle linee, delle forme con esse descritte, che scaturisce un peculiare, nostalgico sentimento dello spazio. E’ tra quelle improvvise dilatazioni, allungamenti e dissolvimenti di figure avvolte da inconsapevoli, pungenti melanconie che si manifestano i repentini restringersi e svanire di strade e edifici in corsa solitaria verso orizzonti deformati e schiacciati da tramonti “illogici”. Tramonti le cui radiazioni rivelano figure dalla sensualità attonita, quasi dolente: qui (come ho scritto di quest’autore in un’altra circostanza) “donne, uomini, asteroidi, oggetti… tutto si lascia mettere in posa, come per farsi ritrarre un istante prima che la percezione drammatica della distanza lo sorprenda”.

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